martedì 2 dicembre 2014

Cine Jazz&Blues [3]

Con questo finto documentario realizzato da Woody Allen alla fine degli anni '90 del XX secolo, continuiamo la rassegna dei film in cui si parla a vario titolo di jazz e blues e dei numerosi generi derivati da questi stili.

Accordi e disaccordi
 

Scritta e diretta nel 1999 da Woody Allen, “Accordi e disaccordi” è una pellicola che rientra nel genere del mockumentary, ovvero tra quelle opere che, nonostante si presentino come documentari veri e propri, sono imperniate su personaggi o vicende fittizie.
Questo lungometraggio, ben girato, interpretato da un cast molto affiatato di grandi celebrità, che si basa su un umorismo garbato e un'ironia particolare e ha come colonna sonora standard jazz di notevole fama, fa riflette sul rapporto tra quello che un artista mostra di se al suo pubblico e il suo vero essere.
Racconta la biografia immaginaria di Emmet Ray, personaggio donnaiolo e ubriacone interpretato da uno Sean Penn in stato di grazia, la cui figura, anche se è del tutto inventata, è ispirata in parte a quella della star del jazz belga di origine gitana Django Reinhardt.
Emmet è ossessionato dall'essere il secondo chitarrista più bravo al mondo, giudizio che, sebbene condiviso per onestà intellettuale e per la venerazione che nutre nei confronti dello stesso Reinhardt, al punto da svenire quando lo vede, non manca di mandarlo su tutte le furie.
Accanto a questo personaggio, che la natura ha dotato di geniale talento ma di una personalità bambinesca e immatura, si muovono due figure femminili che sono il risvolto della stessa medaglia.
Hattie, cui presta il volto l'attrice britannica Samantha Morton, una giovane ragazza muta che viene allontanata dal musicista nonostante dal loro incontro sembra poter nascere una relazione seria e Blanche, Uma Thurman, una donna altolocata innamorata del brivido dei bassifondi che dopo aver intrattenuto una relazione e sposato il protagonista scapperà con un gangster.
Quando si accorgerà di essere rimasto solo Emmet capirà che ha bisogno di provare amore per un'altra persona per essere felice e che il talento o il denaro non gli faranno ottenere approvazione ma solo invidia da parte di chi gli sta intorno.
Solo allora riuscirà a suonare come il suo idolo Django Reinhardt e a incidere i dischi più belli della sua carriera prima di sparire del tutto dalla circolazione.
Oltre che per il cast e la sceneggiatura, questo film merita di essere visto per numerose altre componenti tra cui spiccano la fotografia calda e avvolgente del cinese Zhao Fei, già collaboratore di Zhāng Yìmóu in “Lanterne Rosse”, che ha lavorato con Allen senza imparare una sola parola di inglese, e le scenografie di Santo Loquasto che ha ricreato in modo perfetto l'atmosfera dell'America rurale degli anni'30, della leggendaria 44esima strada di New York e dei jazz-club di Chicago.
Anche la colonna sonora, basata su brani originali di Django Reinhardt, di Joe Venuti ed Eddie Lang, riarrangiati e diretti dal pianista Dick Hyman ed eseguiti nelle parti per chitarra solista da Howard Alden dà infine valore aggiunto ad un'opera che sia agli amanti del buon cinema che chi si voglia rendere conto di quello che era l'ambiente musicale negli Stati Uniti dei primi decenni del novecento non si possono perdere.

domenica 12 ottobre 2014

Adam Wild n°1: Gli schiavi di Zanzibar

Sceneggiatura: Gianfranco Manfredi
Disegni: Alessandro Nespolino
Copertina: Darko Perovic
Editore:
Sergio Bonelli Editore
Data di uscita: Ottobre 2014
N° Pagine: 98
Prezzo: € 3,30

Ultima fatica dello scrittore e sceneggiatore meneghino Gianfranco Manfredi, Adam Wild è un esploratore, di nazionalità scozzese, membro della Royal Geographical Society di Londra e protagonista dell'omonima serie a fumetti, d'impianto avventuroso, pubblicata da Sergio Bonelli Editore.
Gli episodi di questo serial, ambientati nell'Africa subequatoriale di fine XIX secolo, vedono l'eroe, la cui fisionomia è modellata su attori come Douglas Fairbanks, Errol Flynn e Clark Gable, compiere spedizioni sullo sfondo di un periodo storico ben preciso.
Queste imprese, ispirate da quelle di David Livingstone, sono volte però, non solo alla scoperta di nuovi luoghi e razze ma anche alla liberazione di schiavi.
In un periodo dove lo schiavismo è stato abolito pressoché ovunque infatti, la tratta continua clandestinamente verso il Medioriente, gestita prevalentemente dagli arabi, e, in nuove forme, anche verso l'occidente.
Nella migliore tradizione dei characters bonelliani classici, Tex, Zagor, Mister No, anche Adam Wild è un ribelle, un uomo d'azione dai forti principi morali e un idealista pronto a rischiare la vita per le cose in cui crede, caratteristiche messe ben in evidenza nell'albo di esordio della collana, intitolato “Gli schiavi di Zanzibar”, uscito nelle edicole italiane nell'ottobre del 2014.
Disegnato dal napoletano Alessandro Nespolino, con un tratto chiaro e particolareggiato d'impronta francese, in questo primo numero il lettore, oltre al personaggio principale, farà la conoscenza del ricco cast di comprimari che l'accompagnano come, per citare i più importanti: la principessa guerriera bantu Amina, il conte Narciso Molfetta, nobile italiano cresciuto in Vaticano la cui personalità di uomo ottuso che si scontra con usi e costumi che non conosce viene usata come pretesto per introdurre cenni storici, e l'ex schiavo Makibu.
Queste figure dal grande spessore psicologico, incontrandosi ed interagendo tra loro, si conosceranno e cementeranno i rapporti.
Anche le ambientazioni poi sono trattate con estremo rigore sia dal punto di vista visivo che filologico.
Gli autori, per loro stessa ammissione, si sono serviti di numerosi libri d'esplorazioni africane dell'Ottocento, di fotografie storiche e contemporanee e di documentari.
Oltre che per le tavole, molto belle e dotate di un equilibrio tra bianchi e neri non comune, questo episodio si fa apprezzare anche per le copertine di Darko Perovic, che colpiscono per la loro semplicità e allo stesso tempo per una grande ricchezza di dettagli.
Un applauso infine va fatto a Gianfranco Manfredi che, nonostante abbia trattato la scrittura del volumetto con grande rigore storiografico non rinunciando comunque a derive horror e fantastiche, è riuscito a non scadere nel didascalico e, tramite avvincenti descrizioni e colpi di scena al fulmicotone, a non far scemare l'attenzione.
Alla luce di quanto scritto possiamo quindi dire, senza temere di essere smentiti, che la lettura di questa serie a fumetti sia estremamente consigliata sia agli appassionati di storia africana che a chi, pur non rinunciando all'intrattenimento, privilegia i contenuti a scapito della forma.

venerdì 12 settembre 2014

Batman Il Ritorno


"Batman Il ritorno" è il secondo capitolo della saga dell’uomo pipistrello diretto da Tim Burton.
Uscito nel 1992 questo film è molto più personale e decisamente meno commerciale rispetto al primo.
A conferma di ciò basti pensare che questo sequel è costato più del doppio del primo Batman ma ha incassato qualcosa più della metà.
La differenza con la prima pellicola sta nel fatto che in questo lungometraggio l’attenzione del regista, e di conseguenza quella del pubblico, si sposta dal protagonista sulle figure dei due villain: il Pinguino e Catwoman.
Questo trasforma la pellicola in una visionaria fiaba dark, in una discesa nei tormenti dell’animo umano che si attua grazie ai due personaggi che incarnano alla perfezione la figura del diverso.
Il Pinguino è un reietto della società a causa del suo aspetto mentre Selina Kyle, personaggio che nel corso del film diventerà Catwoman, lo è per via della sua scarsa personalità.
Questa brevemente la trama del film: il Pinguino è un essere deforme che è stato abbandonato dai genitori quand’era ancora in fasce.
Cresciuto nelle fogne di Gotham City, passa la sua vita covando vendetta nei confronti della città che l’ha rifiutato.
Per ottenerla si allea con il miliardario Max Schreck, che riconosce in Batman l’ostacolo più pericoloso nella loro corsa verso il potere.
Sullo sfondo di queste alleanze criminali si staglia la figura di Catwoman, misteriosa e pericolosissima donna che ancora non ha deciso se stare dalla parte di Batman o dei suoi due avversari.
Capolavoro della cinematografia degli anni 90, "Batman Il Ritorno", si avvale di una storia straordinaria e di interpretazioni perfette da parte degli attori che forniscono al film numerose chiavi di lettura.
Visivamente ancor più accattivante del primo episodio è splendidamente fotografato, senza fronzoli e in maniera accuratissima, da Stefan Czapsky che è capace di creare un fascinoso contrasto tra il nero di Gotham City e il candido biancore della neve che la ricopre.
Gli attori sono tutti molto ben calati nei loro ruoli anche se la parte del leone in questo secondo film la fa Danny De Vito, perfetto e bravissimo nella parte del Pinguino.
La sceneggiatura non è perfettamente lineare, e nel corso dello svolgimento della vicenda diventa un po’ macchinosa, ma il talento visivo, le invenzioni profuse in ogni inquadratura, l’intelligenza con cui vengono trattati i vecchi temi della maschera e del doppio fanno perdonare gli squilibri.
Da segnalare anche le scenografie e la musica del fido Denny Elfman, che qui fornisce la sua migliore prova di sempre.
Da ricordare infine che il film ha avuto due nomination all’Oscar, una per effetti speciali visivi e una per il make up.

mercoledì 6 agosto 2014

La leggera


"La leggera" è un canto popolare che parla di un frangente molto diffuso agli inizi del XX secolo.
In un'epoca in cui il lavoro stagionale era la normalità, seguendo flussi antichissimi, dall'Italia settentrionale molti lavoratori si recavano in Maremma, terra oramai soggetta alla bonifica Medicea ma ancora intesa come malsana, pericolosa, "strana".
Chi andava a fare la stagione nei campi di quelle zone, contadini poverissimi, doveva prendere un treno che arrivava passando dall'Appenino tra la Toscana e l'Emilia, il famoso "Trenino della Leggera" o semplicemente "Leggera".
Si chiamava così perché i suoi viaggiatori non avevano niente o quasi.
Nella valigia o nella sporta che si portavano dietro, c'erano, nella maggior parte dei casi, un tozzo di pane, una mela e un paio di scarpe sfondate.
Racconta l'etnomusicologa e cantante italiana Caterina Bueno, che raccolse la canzone a Stia, in provincia di Arezzo, nei primi anni '60: “Il treno che portava i lavoratori stagionali attraverso tutta la regione fino in Maremma, veniva chiamato il “Trenino della leggera”, dove “leggera” era un termine dispregiativo e canzonatorio con cui si indicavano i disoccupati, gli stagionali o comunque gli emigranti che, poverissimi, viaggiavano “leggeri” con una sola sporta…”.
Il treno, dunque, era la "Leggera" perché il bagaglio di chi vi viaggiava era fatto di niente.
Ma in quel treno, come in tutti i treni dei lavoratori, si cantava.
Cantare non aveva soltanto una funzione di svago e di passatempo, probabilmente era anche un sistema per cercare di farsi passare la fame, ma era, per molti, un mezzo per pagarsi il soldo che costava il biglietto.
Nelle stazioni, delle specie di bande di stagionali s'improvvisavano canterini e si esibivano chiedendo qualcosa.
Cantavano, spesso, canzoni inventate da loro stessi e il ritmo cadenzato della locomotiva sui binari scandiva e cullava le ballate satiriche, anti-clericali e libertarie che preannunziavano la rivolta sociale e il presagio della prossima migrazione di massa verso la lontana America.
Erano canzoni particolari, sovente rognose, e ancor più spesso piene di sogni d'una vita migliore.
E l'illusione di una vita migliore si avverte anche in questa canzone e consiste nel non dover lavorare come schiavi.
Quando i lavoratori cantano di lavoro, liberi di farlo nelle forme che preferiscono, il lavoro non fa una bella fine.
In canzoni come questa, il concetto di lavoro è ancora espresso nella sua forma bruta.
E il sogno di ogni bracciante è una settimana dove non si fa niente e si viene pagati.
Canzoni come questa sono piene di sarcasmo, perché chi le inventava e le cantava sapeva bene che cosa, invece, andava a fare.
Settimane, mesi a spaccarsi la schiena per una miseria.

Tra i moltissimi interpreti di questo brano i principali sono:

 Suonatori Terra Terra
  
Caterina Bueno


Ginevra Di Marco 


lunedì 23 giugno 2014

Batman


Confezionato con grandi mezzi e sicuro mestiere dal regista Tim Burton e dai suoi collaboratori "Batman", film del 1989, è uno dei rarissimi esempi in cui un personaggio dei fumetti non perde di efficacia nella sua trasposizione cinematografica.
Ispirato alle atmosfere del "Ritorno del cavaliere oscuro", storia a fumetti scritta e disegnata da Frank Miller nel 1986, questo lungometraggio ci mostra un personaggio che deve molto alla dimensione cupa e opprimente propria delle sue origini e che si muove in una Gotham City che, scenograficamente parlando, è in forte debito sia con il cinema espressionista tedesco di Fritz Lang che con la Los Angeles fantascientifica di Blade Runner.
Protagonista della pellicola è un ricchissimo miliardario che ha perso i genitori da bambino quando un bandito di strada, che poi scopriremo essere il cattivo del film, li ha uccisi davanti ai suoi occhi.
Proprio questo trauma, che lo segnerà per tutta la vita, spinge Bruce Wayne, questo il nome del miliardario, a combattere il crimine munito di un mantello, di un costume da pipistrello e di apparecchiature fantascientifiche facendosi chiamare Batman.
In questo primo episodio della serie, il cattivo è incarnato da Jack Napier, gangster e brillante chimico che proprio a causa di Batman rimane sfigurato cadendo in una cisterna d’acido.
Dopo una plastica facciale, che gli lascia un’orrida smorfia fissata sul volto, Jack Napier assume il nome di Joker, diviene capo di una banda criminale, si veste da pagliaccio e terrorizza Gotham City con crudeli clownerie come l’avvelenamento di alcuni cosmetici.
Dopo uno scontro senza quartiere tra i due supereroi, la resa dei conti si avrà sul campanile della cattedrale di Gotham City dove sarà Joker ad avere la peggio.
Batman è molto ben caratterizzato da Michael Keaton che umanizza il personaggio con alcune note di sensibilità e alcune nevrosi che contribuiscono in maniera determinante al successo del film.
La scena però è dominata da un Jack Nicholson/Joker eccezionale, sopra le righe e perfettamente calato nella parte.

Batman e Joker sono due personaggi complementari; hanno due esperienze simili che però sono maturate in modo diametralmente opposto.

Uno dei cambiamenti radicali che ci sono stati rispetto alle storie a fumetti infatti, è la rivelazione che a uccidere i genitori di Bruce Wayne sia stato lo stesso Joker da ragazzo.

Questo espediente crea così un legame che unisce in modo tragico e indissolubile i destini dei due protagonisti: Jack Napier ha trasformato un giovane miliardario in un uomo vendicativo e ombroso che anni dopo lo trasformerà nel folle Joker
.
Fanno parte del cast anche Robet Wuhl e Kim Basinger.

Questi due attori interpretano il ruolo del reporter Knox Alexander e della fotografa Vicki Vale, i due giornalisti che tentano di svelare l’identità di Batman.

Di forte richiamo sono anche le atmosfere gotiche realizzate con grande maestria da un regista dall’immenso talento visivo qual è Tim Burton.

Il kolossal che ne viene fuori, anche grazie alle musiche di Denny Elfman, è affascinante e dal punto di vista visuale offre alcune sequenze geniali quasi tutte concentrate nella prima parte del film.
Nella seconda parte invece, la prevedibilità ha il sopravvento e il duello finale è un po' troppo tirato per le lunghe per risultare davvero avvincente.

sabato 21 giugno 2014

C’era una volta il west


Dopo "la trilogia del dollaro", Sergio Leone era fermamente intenzionato a farla finita col western.
I tre film che la componevano gli avevano procurato grande notorietà internazionale, Clint Eastwood aveva deciso di tornare in America da dove era partito come un signor nessuno, la trilogia si era chiusa in gloria, ed era venuto il momento di cambiare.
Nel 1967, il regista italiano si era perdutamente innamorato di un libriccino che gli era capitato tra le mani per caso: si trattava di "Mano armata", autobiografia di Herry “Noodles” Grey, un balordo sfigato che racconta i ruggenti anni ‘30 del gangsterismo americano in maniera suggestiva e originale.
Sergio Leone, cominciò dunque nel ‘67 a scrivere la sceneggiatura tratta da "Mano armata" per il film che si doveva intitolare "C’era una volta in America".
Quel copione conobbe un’infinità di stesure, vi lavorarono innumerevoli sceneggiatori, ma vide la luce soltanto diciassette anni dopo, nel 1984 e fu l’ultimo film di Leone.
Vi chiederete perché.
È presto detto.
Le majors hollywoodiane che avevano offerto lauti contratti a Leone, nicchiavano per il costo eccessivo di "C’era una volta in America" e soprattutto volevano altri western, sempre western, e soltanto western.
In sostanza i produttori americani dicevano: “Sei molto bravo ma rimani al tuo posto, e vedrai che faremo tanti bei soldi insieme”.
Questa premessa è utile a spiegare che il film "C’era una volta il west", non fu che uno dei tanti contrattempi in cui s’imbatté Leone nel suo impervio cammino verso l’agognata materializzazione di "C’era una volta in America".
Tuttavia ciò non sminuisce per niente il valore dell’opera.
Anzi.
Da questo film nasce un regista molto diverso da quello che avevamo scoperto insieme a Clint Eastwood.
Il Sergio Leone di "C’era una volta il west" è un uomo ferito nell’orgoglio che ostenta improvvisamente un feroce disprezzo per il capitalismo americano.
Disprezzo che troverà poi la sua massima esaltazione nel 1971 in "Giù la testa!".
Non a caso, Leone sceneggia il film con il fedele Sergio Donati ma firma il soggetto con Bernardo Bertolucci e Dario Argento, due autori notoriamente di sinistra e gira un film costosissimo e lentissimo, tutti superlativi questi, che fanno impallidire il portafogli e fanno venire i bruciori di stomaco ai produttori statunitensi.
Basta guardare le prime due memorabili sequenze del lungometraggio per capire quali siano le effettive intenzioni di Leone.
Nella prima, vediamo tre brutti ceffi venuti dal nulla che prendono possesso di una stazioncina ferroviaria nel deserto e attendono pazientemente l’arrivo di qualcuno.
Forse mai, nella storia del cinema, il concetto d’attesa è stato rappresentato con tanto iperrealismo.
Uno dei tre combatte, per una buona manciata di minuti, con una mosca che lo tormenta.
Alla fine riesce ad imprigionarla nella canna della sua Colt e si diverte a vederla agonizzare.
Dopo un tempo che pare un secolo, sopraggiunge un treno.
È un merci, che scarica alcune casse.
Quando il treno riparte dietro il polverone ecco apparire la sagoma di un uomo dalla faccia di pietra che suona il suo nome, Armonica, cui presta il volto Charles Bronson.
Ed ecco che i tre ceffi lo fronteggiano spavaldi per spedirlo al creatore.
La sparatoria è brevissima.
Tutti e quattro mangiano la polvere.
Ma Armonica è l’unico a rialzarsi.
Gli altri tre sono già fuori dal film, due di loro non hanno pronunciato una battuta.
Eppure si trattava di tre notevolissimi caratteristi di Hollywood: Woody Stroode, Jack Elam e Al Mulloch.
La seconda sequenza ci mostra Brett McBain, interpretato dall’attore è l’italiano Frank Wolff, maschera di grande intensità, morto suicida pochi anni dopo, un proprietario terriero irlandese da tempo vedovo che sprona i suoi tre figli ad accelerare i preparativi per una grandiosa festa all’aperto.
Cosa c’è da festeggiare?
L’arrivo di una donna Jill, sua futura moglie e nuovo angelo del focolare.
McBain non sta nella pelle.
I suoi rampolli sono più preoccupati che felici.
Ma a spegnere ogni ansia, ci pensano come al solito le pistole.
Pochi colpi, che sembrano venire dal cielo, e i McBain sono buoni solo per una tomba di famiglia.
Un pugno d’uomini incede lentamente sul luogo del massacro.
Il più piccolo dei McBain si affaccia sull’uscio.
Il capo dei killer lo fissa con un ghigno beffardo egli spara a sangue freddo.
Quell’uomo senza cuore si fa chiamare Frank, ma in realtà è nientemeno che il buono per antonomasia del cinema Americano: Henry Fonda.
Più dissacratori di così si muore.
Nella terza scena, ecco che sbarca nel film la novità più dirompente: la donna.
Una Claudia Cardinale bella da svenire interpreta l’ignara Jill, promessa sposa del già fu Brett McBain.
Ma ancora una volta, l’unico vero ignaro è il pubblico.
Perché di lì a poco scopriremo che è proprio la donna la vera protagonista di "C’era una volta il west".
È lei il centro d’attenzione e il motore del film, dal momento che le nozze col defunto sono state celebrate tempo addietro e che Jill può dirsi a tutti gli effetti, la signora McBain.
Questo piccolo particolare ha un’influenza determinante sul seguito della storia.
Il povero McBain, infatti, come tanti altri prima di lui, è stato assassinato su ordine di Morton, Gabriele Ferzetti in una caratterizzazione straordinaria, magnate infermo con il collare e le grucce che continua a vivere per portare a termine il progetto di unificare il Grande Paese con una ferrovia “coast to coast” che unisca l’Atlantico al Pacifico.
Quel progetto, sarà realizzato alla fine proprio da Jill McBain.
È la donna, infatti, il simbolo dell’America nascente che avanza sul cavallo d’acciaio e spazza via il ricordo del Far West per costruire l’immagine della futura prima potenza mondiale.
Rivedendo oggi questo film, tutto appare più fortemente simbolico.
Il rapporto tra Ferzetti/Morton, il mandante, e Fonda/Frank, il sicario, è forse, la cosa più bella del film.
Nell’intrigo che li vede complici e rivali, decisi a combattere ciascuno con le proprie armi, Morton il denaro, Frank la pistola, è racchiusa in forma di metafora fulminante tutta la storia americana.
Nella storia del cinema questo film che diventa sempre più leggendario con il passare del tempo, figura ormai come “l’ultimo dei western”.
Tuttavia, com’è puntualmente accaduto a Sergio Leone, anche "C’era una volta il west" ha segnato non la fine ma l’inizio di un filone cinematografico.
Molti film americani, dal "Pistolero" di Don Siegel, a "Gli Spietati" diretto e interpretato da Clint Eastwood, ci hanno raccontato del crepuscolo del Western, e chissà quanti ne verranno ancora.
Ebbene, quando li incontrerete non dimenticate che sono tutti figli di "C’era una volta il west" e del personalissimo talento creativo di Leone.

giovedì 20 marzo 2014

La donna è mobile

Dopo aver parlato del "Nessun dorma" ancora una volta parlerò di una romanza famosissima, interpretata più volte dai tenori di tutto il mondo, scritta da un altro immortale della musica operistica italiana.

"La donna è mobile" è la canzone che il Duca di Mantova, personaggio interpretato dal tenore, intona nel terzo ed ultimo atto del "Rigoletto", opera del 1851 di Giuseppe Verdi.



È uno dei brani operistici più popolari, grazie alla sua estrema orecchiabilità e al suo accompagnamento danzante.
Si racconta che Verdi ne proibì la diffusione prima dell'andata in scena dell'opera, al Teatro La Fenice di Venezia, per non rovinarne l'effetto.
Queste stesse caratteristiche di facilità ne fanno per altro uno dei bersagli favoriti dei detrattori di Verdi e dell'opera dell'Ottocento.
In realtà, "La donna è mobile" è musica da ascoltare nel suo contesto drammaturgico.
Il suo carattere triviale riflette il luogo, i bassifondi della città di Mantova, e la situazione in cui è cantata.
Con la sua superficiale leggerezza, perfettamente incarnata dalla musica, il duca riflette sulla propria personale visione di vacuità e imperscrutabilità femminile, ove la donna è vista come piuma al vento, suscettibile di cambiamenti tanto nei pensieri quanto nelle parole al primo mutare dell'umore e del corso degli eventi.
Di fatto, si prepara all'incontro con una donna di strada: Maddalena, sorella di Sparafucile, il sicario prezzolato da Rigoletto per fargli la festa.
Il senso della canzone non è dunque tanto nella sua prima esposizione, in forma completa e in due strofe, ma nei suoi due successivi ritorni.
Il primo ritorno avviene mentre il Duca sale le scale della casa di Sparafucile per andare a schiacciare un pisolino nel granaio, in attesa che Maddalena lo raggiunga.
Il brano viene solo canticchiato, rivelandosi realmente per quello che è, cioè una canzonetta, ossia quella che i musicologi definiscono musica di scena, che il Duca si diverte ad intonare.
I frammenti di melodia che il Duca omette qua e là sono intonati dal clarinetto, che in questo modo ci dà la chiave d'accesso al suo pensiero, dato che naturalmente il personaggio continua a pensare la melodia anche quando non la intona.
Ancora più interessante è l'ultima occorrenza, dopo che Sparafucile, su insistente richiesta di Maddalena, ha ucciso un viandante, di fatto la figlia di Rigoletto, in luogo del Duca.
Né questi né Rigoletto sanno nulla di quanto è accaduto.
Anzi, Rigoletto crede che il corpo che il sicario gli ha consegnato in un sacco sia questo del suo padrone e signore, e si appresta trionfante a gettarlo nel fiume Mincio.
È a questo punto che sente la vocina del Duca che, di lontano, intona la solita canzone.
Solo a questo punto "La donna è mobile" si rivela per quello che è: un capolavoro di ironia tragica, giacché solo il carattere triviale della musica le consente di stridere con tanta forza nel contesto drammaturgico.
Si noti che solo in quest'ultima occasione Verdi prescrive l'acuto finale ma piano, "perdendosi poco a poco in lontano", a rimarcare l'effetto della beffa.
Per quanto riguarda il testo della romanza, i versi di Francesco Maria Piave sono divisi in due strofe.
Ogni strofa si articola in due terzine formate da due quinari e un quinario doppio: un'irregolarità che costituisce un vezzo metrico sotto il quale si nasconde una più semplice struttura in quattro doppi quinari.

Testo

La donna è mobile
Qual piuma al vento,
Muta d'accento - e di pensiero.

Sempre un amabile,
Leggiadro viso,
In pianto o in riso, - è menzognero.

È sempre misero
Chi a lei s'affida,
Chi le confida - mal cauto il core!

Pur mai non sentesi
Felice appieno
Chi su quel seno - non liba amore!

La prima esposizione, in Si maggiore, è in tempo di Allegretto.
Il movimento ternario (in 3/8) è sottolineato dall'articolazione della terzina d'accompagnamento, il cui battere coincide col basso affidato agli archi gravi.
Tale basso, a conferma della scelta del compositore di utilizzare un registro stilistico popolare, non si muove dalla tonica Si per diciassette battute.
Benché l'orchestra includa anche la sezione degli archi, la scrittura è di tipo bandistico: la melodia del tenore, con le sue caratteristiche ricadute, è annunciata in modo pesante, a dispetto dall'indicazione di "pianissimo", da tutti i legni, oltre che da violini e violoncelli.
Il carattere popolaresco, quasi di stornello, è ribadito dalla semplice cadenza che chiude la strofa "con forza".
Segue una seconda strofa, identica alla prima tranne che per il testo, che in passato era frequentemente omessa nelle esecuzioni.
La seconda esposizione, mentre il Duca sale nel granaio, oltre che per gli interventi del clarinetto, differisce dalla prima per la condotta più legata, meno brillante della melodia.
D'altronde, come la didascalia specifica, il personaggio termina il suo canto "addormentandosi a poco a poco".
Gli impertinenti staccati iniziali, "La - don - na è..." e gli accenti aggiunti sul secondo movimento di battuta, a mo' di mazurca, "mo - bìl" ... "ven - tò", tornano invece nell'ultima esposizione, spezzata dal drammatico declamato di Rigoletto e conclusa sul Si acuto.
La presenza dell'acuto finale nelle precedenti esposizioni nasce da una tradizione che non tiene conto della volontà dell'autore.




Per chi volesse ascoltare il brano eseguito dal grande Enrico Caruso:
http://www.youtube.com/watch?v=aef9DGvZ8Qo

per chi volesse ascoltare la versione di Pavarotti:
http://www.youtube.com/watch?v=8A3zetSuYRg&feature=related

Nessun dorma

Una dei brani più belli e famosi della produzione operistica italiana che arriva direttamente dalle zone di cui sono originario.
Puccini ha infatti lo ha scritto nella sua casa di Torre del Lago.

Nessun dorma è una celebre romanza per tenore che fa parte della "Turandot".


È intonata dal personaggio di Calaf all'inizio del terzo atto.
Immerso nella notte di Pechino, in totale solitudine, il "Principe ignoto" attende il giorno nel quale potrà finalmente conquistare l'amore di Turandot, la principessa di ghiaccio.
La struttura della romanza è basata sull'alternanza tra strofa e ritornello.
Durante la strofa il canto del tenore non si espande oltre lo stile di un arioso e il discorso musicale è condotto dall'orchestra, le cui armonie, estremamente piccanti, sono addolcite da una timbrica diafana, basata sugli archi con sordina, arpa, celesta e legni.
La strofa sfocia senza soluzione di continuità in un ritornello costituito da una frase di otto battute basata su una melodia in Re maggiore di ampio respiro, costruita su versi novenari ben cadenzati, con gli accenti fissi sulle sedi quarta e ottava.
Il canto è reso espressivo dalle delicate dissonanze di seconda tra le note accentate, che coincidono con le sillabe pari, e gli accordi dell'orchestra.
Dopo una ripresa scorciata della strofa, di sole quattro battute, la melodia del ritornello viene intonata dal coro dietro la scena, che sostenuto dal tremolo degli archi riprende le parole del principe, mostrando il rovescio della medaglia, ossia rammentando le minacce di morte della principessa, qualora prima dell'alba nessuno fosse riuscito a scoprire il nome dello straniero "Il nome suo nessun saprà / E noi dovremo, ahimè, morir!".
Calaf completa la melodia con nuovo slancio e la romanza termina con una breve coda sulla parola "vincerò".
La voce del tenore tocca il Si acuto, ma l'impeto eroico è ammorbidito, alla maniera di Puccini, facendo scivolare la voce alla nota inferiore, mentre l'orchestra riprende a tutta forza la melodia principale in una tipica perorazione finale.
Il brano non conclude con una cadenza, bensì modula immediatamente nel successivo quartettino tra Calaf e le tre Maschere.
Per ragioni pratiche, quando la romanza è eseguita in forma di concerto, vi si aggiunge una sbrigativa e prevedibile cadenza finale, quanto mai lontana dallo stile dell'autore.
Libretto

Il principe ignoto
Nessun dorma!... Tu pure, o Principessa,
Nella tua fredda stanza
Guardi le stelle
Che tremano d'amore e di speranza.
Ma il mio mistero è chiuso in me,
Il nome mio nessun saprà!
Solo quando la luce splenderà,
Sulla tua bocca lo dirò fremente!...
Ed il mio bacio scioglierà il silenzio
Che ti fa mia!...
Voci di donne
Il nome suo nessun saprà...
E noi dovremo, ahimè, morir!...
Il principe ignoto
Dilegua, o notte!... Tramontate, stelle!...
All'alba vincerò!...

Spartito

Il principe ignoto
Nessun dorma! Nessun dorma! Tu pure, o Principessa,
nella tua fredda stanza
guardi le stelle
che tremano d'amore e di speranza...
Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà!
Ed il mio bacio scioglierà il silenzio
che ti fa mia.
Voci di donne
Il nome suo nessun saprà...
E noi dovrem, ahimè, morir, morir!
Il principe ignoto
Dilegua, o notte! Tramontate, stelle!
Tramontate, stelle! All'alba vincerò!



Per chi volesse ascoltare la romanza nell’interpretazione di Luciano Pavarotti:
http://www.youtube.com/watch?v=RdTBml4oOZ8

domenica 23 febbraio 2014

Filmografia sulla mafia


La presente filmografia non ha alcuna pretesa di esaustività, poiché secondo l'Intrnet Movies Database sono oltre duecento i film  che trattano, in modo più o meno centrale, il tema della mafia e della criminalità organizzata.
La selezione può comunque essere utile per cogliere le principali tendenze manifestatesi nell'arco di cinquant'anni, dal cinema d'autore a quello di denuncia, dalle farse alle parodie raffinate, dalle commedie di costume alle ricostruzioni storiche.

In nome della legge, Pietro Germi, 1949
Tratto dal romanzo Piccola pretura di Lo Schiavo, il primo film importante che si occupa direttamente di mafia in Italia. Il ligure Germi, innamorato della Sicilia, traduce la lezione del western americano in una storia di grandi e mitici antagonismi, con un capomafia che sa bene cos'è il senso dell'onore e un giovane pretore combattivo che se ne serve per riportare l'ordine in paese.

Salvatore Giuliano, Francesco Rosi, 1961
Film fondamentale, in cui la mafia viene riletta come elemento chiave in un contesto segnato da arretratezza economica, ambiguità delle istituzioni e rivendicazioni sociali. Il bandito Giuliano, mai inquadrato in volto, diventa l'emblema dei tanti misteri che segnano la storia italiana dopo la Liberazione, con uno spericolato uso strumentale della mafia per controllare il territorio.

L'onorata società, Riccardo Pazzaglia, 1961
Saruzzo Messina e Rosalino Trapani, ovvero Franco e Ciccio, devono fuggire dalla Sicilia per sottrarsi alle ire del capomafia cui hanno sedotto le figlie. Basta guardare i nomi "geografici" dei personaggi, per capire il livello della prima parodia sulla mafia, ricca di stereotipi e di anacronismi storici, con i mafiosi dipinti come bonari cafoni di campagna. La mafia vera, intanto, è già sui mercati internazionali.

Mafioso, Alberto Lattuada, 1962
Alberto Sordi è un siciliano che vive a Milano, con moglie comasca e figlie biondissime, perfettamente partecipe del boom economico. Tornato in Sicilia in vacanza, viene utilizzato dalla mafia, in quanto insospettabile, per uccidere un boss rivale negli Stati Uniti. Sceneggiato da Ferreri, un film in anticipo sui tempi che sa leggere le comunanze tra sistema mafioso e sviluppo economico "legale".

Le mani sulla città, Francesco Rosi, 1963
Una denuncia esplicita delle collusioni tra potere politico e ambiente mafioso per la spartizione del territorio. In pieno boom economico Napoli è divisa tra chi specula e controlla il gioco delle concessioni edilizie e chi, con poche speranze, cerca di opporvisi. Leone d'Oro a Venezia, il film è il capostipite (e uno degli esempi più riusciti) del cinema di impegno e denuncia.

Il giorno della civetta, Damiano Damiani, 1967
Dal romanzo di Sciascia una trasposizione che semplifica la complessità del libro: i picciotti sono molto caricaturali, mentre Don Mariano fa un figurone, con l'onore delle armi riconosciutogli anche dal suo avversario, il capitano Bellodi interpretato da Franco Nero. Simbolo dell'operazione: Claudia Cardinale, in un personaggio che nel libro è minore e nel film ha invece largo spazio. Anche l'occhio vuole la sua parte.

A ciascuno il suo, Elio Petri, 1967
Dietro le apparenze di un delitto passionale si cela in realtà un crimine mafioso. Un professore, interpretato da Volonté, non si accontenta della versione ufficiale e trova i nessi che portano sulla pista giusta. Ma la mafia non gli permette di giungere in fondo, uccidendolo. Tratto da Sciascia, un amaro apologo sulla mafiosità diffusa in tutti gli strati sociali.

Il sasso in bocca, Giuseppe Ferrara, 1970
A partire dal documentatissimo libro di Michele Pantaleone, il film indaga i legami tra mafia italiana e americana, ricostruendo circa mezzo secolo di storia con uno sguardo ben diverso dalle versioni ufficiali dei manuali scolastici. Emblematicamente, il titolo si riferisce al modo in cui la mafia lascia il segno su chi viene ucciso perché infrange l'omertà, scegliendo la denuncia.

Il prefetto di ferro, Pasquale Squitieri, 1977
Giuliano Gemma è il prefetto Mori che, mandato in Sicilia durante il ventennio fascista per combattere con inflessibilità la mafia e il banditismo, verrà nominato senatore e trasferito. Ricostruzione storica basata sulla lettura del romanzo omonimo del revisionista Arrigo Petacco. Con Claudia Cardinale.

Mi manda Picone, Nanni Loy, 1983
Non è propriamente una storia di mafia, almeno non nel modo in cui siamo abituati a intendere tale genere. È esemplare comunque la ricostruzione del sottobosco napoletano in cui camorra, contrabbando e sopravvivenza convivono apparentemente senza uno scopo preciso e quasi in un'atmosfera di disperazione surreale. Con Giancarlo Giannini e Lina Sastri.

Cento giorni a Palermo, Giuseppe Ferrara, 1984
La rievocazione puntuale e cronachistica della missione palermitana di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il ritratto di un personaggio che, oltre la determinazione pubblica, viene reso nella sua dimensione più personale e privata, con i dubbi sempre crescenti sull'effettivo interesse dello Stato a combattere realmente la mafia.

Il camorrista, Giuseppe Tornatore, 1986
Ispirato al romanzo di Marrazzo che ricostruisce l'ascesa e caduta di Raffaele Cutolo a capo della Nuova Camorra Organizzata, l'esordio di Tornatore è un sontuoso melodramma che propone una riflessione non banale sulla mafia vista dall'interno. Fu boicottato politicamente per i chiari riferimenti alle connessioni tra camorra e Stato nella vicenda del rapimento Cirillo.

Mery per sempre, Marco Risi, 1989
Dal libro di Aurelio Grimaldi, l'esperienza di un insegnante nel carcere minorile di Palermo, con i giovani detenuti che ritengono la mafia un bene, un'identità collettiva in cui specchiarsi. Tra melodramma e opzioni neo-neorealistiche, un film chiave, con Michele Placido che sveste i panni dell'ispettore Cattani nella Piovra e cerca un dialogo che sembra impossibile. Con un seguito, Ragazzi fuori (Risi, 1991).

Johnny Stecchino, Roberto Benigni, 1991
Un uomo semplice viene assunto dalla mafia come sosia di un boss pentito, per attirare le rappresaglie dei clan rivali. Parodia non banale che va oltre il gioco degli equivoci e fa riflettere sul rapporto tra ciò che si vede e ciò che si sa della mafia, tra stereotipi e sorprese. Memorabile la lista dei problemi di Palermo, in cui il più grave in assoluto è, ovviamente, il traffico.

La scorta, Ricky Tognazzi, 1993
Ispirato alla storia vera del giudice Taurisano, il film si inscrive nel filone degli eroi sconosciuti e dei martiri della giustizia, insistendo sulla solitudine in cui si trova chi combatte la criminalità diffusa. L'opera ha contribuito alla diffusione dell'immagine popolare del "buon poliziotto". David di Donatello per la migliore regia.

Il giudice ragazzino, Alessandro Di Robilant, 1994
In contrasto con la spettacolarizzazione televisiva e la mitizzazione degli eroi dell'antimafia quest'opera dallo stile minimale fa emergere, senza retoriche, tutte le insicurezze, i dubbi e le paure di un protagonista della lotta per la legalità. Ispirato alla vera storia del giudice Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990.

Testimone a rischio, Pasquale Pozzessere, 1996
Dalla vicenda reale di Piero Nava, testimone casuale del delitto Livatino, un film sulle ripercussioni dolorose di un gesto di civiltà: vita in pericolo, rapporti umani e familiari che diventano precari, trasferimenti continui, perdita del lavoro. Con uno Stato che non sembra voler veramente tutelare il coraggio di un cittadino qualunque.

Lo zio di Brooklyn, Daniele Ciprì e Franco Maresco, 1996
Ciprì e Maresco non possono essere definiti né avanguardia né sperimentazione. La loro opera si impone per una ormai avvenuta completezza letteraria in cui le situazioni estreme che superano il grottesco definiscono una condizione di povertà radicale. I mafiosi del film sono una parte del paesaggio universale che, avendo perduto ogni contenuto culturale, non fa che replicarne segni vuoti.

Tano da morire, Roberta Torre, 1997
Il primo musical sulla mafia, ma soprattutto un film serissimo che affronta gli stereotipi delle rappresentazioni mafiose e indaga con grande acutezza le simbologie vigenti all'interno dell'Onorata società, con particolare attenzione per la condizione femminile. A prescindere dai giudizi, un film necessario.

Teatro di guerra, Mario Martone, 1998
Una compagnia teatrale d'avanguardia prova la tragedia di Eschilo I sette contro Tebe in un teatro dei quartieri spagnoli. Fuori e dentro la finzione c'è la Napoli della guerra tra le cosche rivali, dei fiori agli angoli delle strade per i morti ammazzati, degli abusi dei boss di quartiere che comunque cambiano troppo rapidamente. Una guerra vera contrapposta alla guerra recitata in una città in cui la camorra è un segno del degrado.

Placido Rizzotto, Pasquale Scimeca, 2000
La mafia del dopoguerra e le origini rurali del potere mafioso sono qui delineate a fondo. Scimeca, nella descrizione del personaggio di Rizzotto (un sindacalista ex partigiano che tentò di opporsi allo strapotere dei latifondisti), restituisce un'immagine autentica di un martire della mafia, sul cui omicidio indagò con successo un giovane Dalla Chiesa. Grandi sequenze degli interrogatori in cui ogni teste depone una sua verità.

I cento passi, Marco Tullio Giordana, 2000
La storia, commovente e sinceramente partecipata, di Peppino Impastato, l'uomo che si prese gioco della mafia ed ebbe il coraggio di denunciarne abusi e speculazioni. Giordana ne ricostruisce la formazione e le gesta fino ai tragici momenti dell'omicidio ordinato da Tano "Seduto" Badalamenti. Il film (insieme a Placido Rizzotto) segna anche il ritorno di un certo cinema di impegno e memoria, come testimonia anche l'omaggio/citazione a Le mani sulla città di Rosi.

Luna Rossa, Antonio Capuano, 2001
Film a flashback sulla storia di una famiglia camorrista. Il pentitismo diventa qui spunto narrativo e pretesto per mostrare costruzione e decostruzione del potere come fatto violento, ma anche come pulsione privata e passionale. Il senso del tragico fa perdere di vista l'orizzonte razionale di denuncia e fa emergere in modo forte gli elementi simbolici del film (come l'inedito cielo grigio di Napoli).

Angela, Roberta Torre, 2002
Una storia di mafia al femminile girata con un registro diverso rispetto ai precedenti lavori della Torre. Angela è la donna di un mafioso in carcere e la storia viene presentata attraverso la sua esperienza. Uno dei migliori film di mafia perché esula dai soliti cliché di rappresentazione del fenomeno.

Traffic, di Steven Soderbergh, Usa 2000.
Traffic presenta (in modo a volte esplicito e "forte") un insieme di storie legate al mondo del narcotraffico negli Usa. Più personaggi intersecano la loro vita riproponendo i drammi anche violenti dettati dalla logica del potere e dello scambio droga/denaro, che si gioca sull'esistenza delle persone. Il film contiene molti aspetti della cultura della droga (polizia, tossicomani, potere e soldi) senza mai assumere un atteggiamento moralista, ma cercando invece di cogliere le implicazioni esistenziali che la presenza delle sostanze (a tutti i livelli) comporta.

Segreti di stato, Paolo Benvenuti, 2003
Un' altra rappresentazione della strage di Portella della Ginestra, connotata da un' interpretazione storica di forte denuncia.

mercoledì 22 gennaio 2014

Giù la testa!


Nel bel mezzo del deserto messicano un piagnucoloso pezzente ferma una strana dirigenza che sembra il Grand Hotel.
Lo straccione che si chiama Juan Miranda, implora una passaggio.
I ricchi viandanti, prima di prenderlo a bordo, lo deridono e l’umiliano.
Più avanti essi scopriranno a loro spese che è il capo di una pericolosa banda di tagliagole a conduzione familiare.
Infatti, di lì a poco la carrozza è presa d’assalto da un vecchietto, il padre di Miranda, e da un branco di ragazzini, i figli, tutti armati fino ai denti.
Sterminati i passeggeri e incassato il bottino, la gang riceve la visita di un’apparizione surreale: un turista irlandese, vestito alla Sherlock Holmes, sfreccia su una moto tirando candelotti di dinamite.
Il suo nome è Sean Mallory, e di professione fa il rivoluzionario.
Per il rubagalline Juan Miranda, che sogna da una vita di espugnare la banca più ricca del Messico è l’uomo del destino.
Con le buone e con le cattive il messicano riesce a convincere l’irlandese ad allearsi con lui.
Giunti a Mesa Verde, Sean Mallory e Juan Miranda si imbattono in un gruppo di sostenitori di Pancho Villa, capeggiati da un sega ossa dai modi colti e garbati chiamato il dottor Villega.
In mezzo a quei cospiratori, l’irlandese sembra molto a suo agio, mentre il messicano fa la figura del buzzurro.
Tuttavia, dal momento che l’obiettivo di tutti è il medesimo, la Famosa banca, Miranda non sembra soffrire di particolari complessi d’inferiorità.
Nel fatidico giorno della rapina, Sean Mallory, Juan Miranda e famiglia e i cospiratori locali riducono Mesa Verde ad un cumulo di macerie.
Ma quando Miranda si cala eccitato nei sotterranei della banca, anziché il sospirato tesoro trova centinaia di prigionieri politici sporchi e affamati che lo travolgono nell’ansia di riacquistare la libertà.
Sono loro il bottino dell’impresa.
Il denaro non esiste.
Juan Miranda è furibondo.
Vuole la pelle di Mallory.
Ma l’irlandese lo riduce all’impotenza chiamandolo eroe.
Da questo momento in poi, Sean Mallory e Juan Miranda attraversano il Messico in lungo e in largo sparando all’impazzata contro le bieche truppe governative.
Lungo il cammino, Miranda perde tutta la sua famiglia, sterminata dall’esercito durante una rappresaglia.
E alla fine, l’ex bandito di strada rimane solo, con l’amico rivoluzionario irlandese che gli spira tra le braccia lasciandogli in eredità la sua esaltante e disperata missione di giustizia.
"Giù la testa!", film del 1971, è l’ultimo film western di Leone, ma in questo caso più che mai la definizione di western è un azzardo nell’azzardo.
Sergio Leone ha impostato tutta la sua carriera all’insegna dell’originalità.
Nella sua arbitraria reinvenzione mediterranea del western, il regista italiano si era concesso innumerevoli licenze poetiche.
Ebbene, "Giù la testa!" le supera tutte.
Questo lungometraggio – che non riscosse all’epoca il successo dei precedenti western – è, secondo alcuni un pasticcio ideologico verboso e filosofeggiante, mentre altri si spingono a considerarlo il miglior film di Leone.
I detrattori storsero la bocca fin dai titoli di testa che ammiccavano al sessantotto.
La pellicola si apre infatti con una raffica di citazioni di Mao Tse Tung.
Molti le ritennero, a seconda dei punti di vista, ruffiane o irriverenti. Coloro che giudicarono negativamente l'opera si lamentarono del velleitarismo ideologico, della lunghezza (due ore e mezza), e dell’interpretazione istrionica di Rod Steiger nei panni di Juan Miranda.
Alla fine questi ultimi salvarono soltanto le musiche di Ennio Morricone, il cui celeberrimo motivetto "Sean Sean" era finito in vetta alla hit parade dei dischi di quell’anno.
Gli altri, gli estimatori, valutarono "Giù la testa!" un piccolo capolavoro di pop art, apprezzando la varietà dei concetti e degli oggetti, veri e propri feticci, che affollano il film come un bazar: la motocicletta di Sean Mallory, il carroarmato ante litteram dell’esercito messicano, la testata del giornale governativo che si chiama “El Imparcial”, l’interno della carrozza inverosimilmente spazioso e arredato come un salotto viennese e le stesse citazioni di Mao.
Inoltre, alcuni esponenti della sinistra parlamentare in quegli anni elessero "Giù la testa!" come “Film della loro vita”.
Detrattori ed estimatori di un tempo però avevano torto entrambe.
Innanzi tutto, se ora c’è una cosa che risulta veramente insopportabile, è proprio, una volta tanto, la musica sdolcinata di Ennio Morricone, compresa la canzoncina "Sean Sean", che tanto successo conobbe all’epoca.
Anche perché le musiche sono terribilmente invadenti, addirittura protagoniste nei muti flashback al rallentatore che raccontano l’improbabile gioventù spensierata e amorosa di Sean Mallory.
Improbabile se non altro perché l’attore James Coburn, che interpreta il rivoluzionario irlandese, non vi appare ringiovanito nemmeno di una ruga.
Quanto alla gigioneria di Rod Steiger, Juan Miranda, occorrerà ricordare che la recitazione sopra le righe è sempre stata la sua specialità, e ciò non gli ha impedito di vincere qualche anno prima un Oscar a furor di popolo per "L’uomo del banco dei pegni" di Sidney Lumet.
Del resto, Steiger qui è ampiamente giustificato: un ruba galline messicano doveva pur avere una sana e robusta dose di ingenuità per diventare un eroe rivoluzionario, ed è peraltro noto che i libri di storia di casi del genere ne tramandano a dozzine.
Spendiamo ancora una parola sul cast, per segnalare i tanti bravi attori di teatro tra cui: Romolo Valli, Maria Monti, Franco Graziosi che soltanto Leone ha saputo valorizzare sul grande schermo.
"Giù la testa!" è e resta uno dei film più spettacolari del cinema italiano.
Sul piano del puro virtuosismo registico forse questo è davvero il miglior film di Sergio Leone.
Perché qui Leone dimostra di essere un dei pochi registi al mondo in grado di muovere masse imponenti di comparse e, allo stesso tempo, di valorizzare i più piccoli dettagli, alternando totali grandiosi a primi piani inquietanti.
Ma non dimentichiamo che "Giù la testa!" è soprattutto un capolavoro del grande artigianato cinematografico italiano ormai in via d’estinzione.
Sceneggiatori del calibro di Sergio Donati e di Luciano Vincenzoni, capaci di inserire senza paura in un genere come il western tutto ciò che agitava la società italiana nel 1971, non ne nascono purtroppo più.
E così il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini, che con Pier Paolo Pasolini faceva film completamente diversi o il responsabile degli effetti speciali rudimentali ma efficaci Antonio Margheriti.
In questo film poco ma sicuro, vola la fantasia e volano anche le due ore e mezza.

domenica 5 gennaio 2014

Visti per voi

Capitan Harlock 3D


Prodotto, con gran dispiego di soldi e mezzi, dal colosso dell'animazione del sol levante Toei Animation, diretto dal regista Shinji Aramaki e scritto da Harutoshi Fukui, "Capitan Harlock 3D" è un lungometraggio che si ispira alle vicende dell'omonimo personaggio ideato dal fumettista e animatore giapponese Leiji Matsumoto.
Presentata fuori concorso alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 2013 ed uscita nelle sale italiane il 1º gennaio 2014, distribuita da Lucky Red, questa pellicola, pur basata su una sceneggiatura non originale, prende molti spunti dalle serie animate e dai manga dedicati al pirata spaziale.
Tuttavia ci sono richiami forti anche a film e serie televisive di tematica fantascientifica come, soltanto per citare i più evidenti, la saga di "Star Wars" e "Battlestar Galattica".
Perno della storia, che ruota intorno alla contrapposizione tra Capitan Harlock e la sua ciurma a bordo dell'Arcadia e la Coalizione Gaia, un'entità sovranazionale decadente e corrotta che governa dittatorialmente la terra, ritenuta un luogo inviolabile e sacro, è infatti il conflitto familiare tra l'ufficiale sulla sedia a rotelle Ezra e suo fratello Yama.
Quest'ultimo viene mandato come infiltrato di Gaia all'interno della corazzata comandata da Harlock con il compito di uccidere il fuorilegge ma, quando scopre e interiorizza l'ideale che lo muove, sarà pronto a schierarsi con lui contro Ezra, che lo accusa di aver causato la sua disabilità.
Quest'opera pur avendo notevoli pecche, tra cui quella che salta subito all'occhio è l'aver adottato una trama diversa da quella dei fumetti e delle serie animate, spicca per alcuni pregi.
Innanzi tutto è vincente la scelta di aver usato la computer grafica, che ha permesso, grazie anche al grande lavoro del mecha designer Atsushi Takeuchi e del character designer Yutaka Minowa, di creare ambientazioni cupe, situazioni concitate e personaggi eterei in linea con l'universo di Matsumoto.
Molto bella ed evocativa poi anche la musica di Tetsuya Takahashi e la caratterizzazione dell'Arcadia, realizzata da Takehiko Hoashi.
L'immagine epica di un teschio dagli occhi rossi che esce da una nuvola di fumo, dei pulviscoli del Dark Matter e dei cannoni che sparano raggi laser, contribuirà infatti a far saltare sulle poltroncine più di un appassionato.
Indovinata poi anche la volontà degli autori di tenere il protagonista, che assume nelle sue apparizioni un atteggiamento più cupo e malinconico rispetto a quello dei manga e dei cartoni animati, lontano dai riflettori e di dare più spazio a figure come i componenti della ciurma dell'Arcadia e i due congiunti intorno ai quali ruota la vicenda.
Per quanto riguarda gli aspetti negativi invece, si può affermare che la sceneggiatura a volte è un po' forzata e i dialoghi sono in alcuni frangenti melensi ed eccessivamente solenni.
È stata inoltre eliminata dalla vicenda ogni forma di romanticismo per sostituirlo con un'epica più banale e meno efficace e la figura di Harlock come un reietto che si batte per la libertà contro tutto e tutti, fuori da ogni regola e seguendo un proprio codice personale è totalmente assente.
Nonostante questi limiti non ci troviamo però di fronte ad un film noioso e piatto ma piuttosto davanti ad una pellicola appassionante che veicola valori come libertà, uguaglianza, onestà, lealtà e coraggio.