lunedì 23 giugno 2014

Batman


Confezionato con grandi mezzi e sicuro mestiere dal regista Tim Burton e dai suoi collaboratori "Batman", film del 1989, è uno dei rarissimi esempi in cui un personaggio dei fumetti non perde di efficacia nella sua trasposizione cinematografica.
Ispirato alle atmosfere del "Ritorno del cavaliere oscuro", storia a fumetti scritta e disegnata da Frank Miller nel 1986, questo lungometraggio ci mostra un personaggio che deve molto alla dimensione cupa e opprimente propria delle sue origini e che si muove in una Gotham City che, scenograficamente parlando, è in forte debito sia con il cinema espressionista tedesco di Fritz Lang che con la Los Angeles fantascientifica di Blade Runner.
Protagonista della pellicola è un ricchissimo miliardario che ha perso i genitori da bambino quando un bandito di strada, che poi scopriremo essere il cattivo del film, li ha uccisi davanti ai suoi occhi.
Proprio questo trauma, che lo segnerà per tutta la vita, spinge Bruce Wayne, questo il nome del miliardario, a combattere il crimine munito di un mantello, di un costume da pipistrello e di apparecchiature fantascientifiche facendosi chiamare Batman.
In questo primo episodio della serie, il cattivo è incarnato da Jack Napier, gangster e brillante chimico che proprio a causa di Batman rimane sfigurato cadendo in una cisterna d’acido.
Dopo una plastica facciale, che gli lascia un’orrida smorfia fissata sul volto, Jack Napier assume il nome di Joker, diviene capo di una banda criminale, si veste da pagliaccio e terrorizza Gotham City con crudeli clownerie come l’avvelenamento di alcuni cosmetici.
Dopo uno scontro senza quartiere tra i due supereroi, la resa dei conti si avrà sul campanile della cattedrale di Gotham City dove sarà Joker ad avere la peggio.
Batman è molto ben caratterizzato da Michael Keaton che umanizza il personaggio con alcune note di sensibilità e alcune nevrosi che contribuiscono in maniera determinante al successo del film.
La scena però è dominata da un Jack Nicholson/Joker eccezionale, sopra le righe e perfettamente calato nella parte.

Batman e Joker sono due personaggi complementari; hanno due esperienze simili che però sono maturate in modo diametralmente opposto.

Uno dei cambiamenti radicali che ci sono stati rispetto alle storie a fumetti infatti, è la rivelazione che a uccidere i genitori di Bruce Wayne sia stato lo stesso Joker da ragazzo.

Questo espediente crea così un legame che unisce in modo tragico e indissolubile i destini dei due protagonisti: Jack Napier ha trasformato un giovane miliardario in un uomo vendicativo e ombroso che anni dopo lo trasformerà nel folle Joker
.
Fanno parte del cast anche Robet Wuhl e Kim Basinger.

Questi due attori interpretano il ruolo del reporter Knox Alexander e della fotografa Vicki Vale, i due giornalisti che tentano di svelare l’identità di Batman.

Di forte richiamo sono anche le atmosfere gotiche realizzate con grande maestria da un regista dall’immenso talento visivo qual è Tim Burton.

Il kolossal che ne viene fuori, anche grazie alle musiche di Denny Elfman, è affascinante e dal punto di vista visuale offre alcune sequenze geniali quasi tutte concentrate nella prima parte del film.
Nella seconda parte invece, la prevedibilità ha il sopravvento e il duello finale è un po' troppo tirato per le lunghe per risultare davvero avvincente.

sabato 21 giugno 2014

C’era una volta il west


Dopo "la trilogia del dollaro", Sergio Leone era fermamente intenzionato a farla finita col western.
I tre film che la componevano gli avevano procurato grande notorietà internazionale, Clint Eastwood aveva deciso di tornare in America da dove era partito come un signor nessuno, la trilogia si era chiusa in gloria, ed era venuto il momento di cambiare.
Nel 1967, il regista italiano si era perdutamente innamorato di un libriccino che gli era capitato tra le mani per caso: si trattava di "Mano armata", autobiografia di Herry “Noodles” Grey, un balordo sfigato che racconta i ruggenti anni ‘30 del gangsterismo americano in maniera suggestiva e originale.
Sergio Leone, cominciò dunque nel ‘67 a scrivere la sceneggiatura tratta da "Mano armata" per il film che si doveva intitolare "C’era una volta in America".
Quel copione conobbe un’infinità di stesure, vi lavorarono innumerevoli sceneggiatori, ma vide la luce soltanto diciassette anni dopo, nel 1984 e fu l’ultimo film di Leone.
Vi chiederete perché.
È presto detto.
Le majors hollywoodiane che avevano offerto lauti contratti a Leone, nicchiavano per il costo eccessivo di "C’era una volta in America" e soprattutto volevano altri western, sempre western, e soltanto western.
In sostanza i produttori americani dicevano: “Sei molto bravo ma rimani al tuo posto, e vedrai che faremo tanti bei soldi insieme”.
Questa premessa è utile a spiegare che il film "C’era una volta il west", non fu che uno dei tanti contrattempi in cui s’imbatté Leone nel suo impervio cammino verso l’agognata materializzazione di "C’era una volta in America".
Tuttavia ciò non sminuisce per niente il valore dell’opera.
Anzi.
Da questo film nasce un regista molto diverso da quello che avevamo scoperto insieme a Clint Eastwood.
Il Sergio Leone di "C’era una volta il west" è un uomo ferito nell’orgoglio che ostenta improvvisamente un feroce disprezzo per il capitalismo americano.
Disprezzo che troverà poi la sua massima esaltazione nel 1971 in "Giù la testa!".
Non a caso, Leone sceneggia il film con il fedele Sergio Donati ma firma il soggetto con Bernardo Bertolucci e Dario Argento, due autori notoriamente di sinistra e gira un film costosissimo e lentissimo, tutti superlativi questi, che fanno impallidire il portafogli e fanno venire i bruciori di stomaco ai produttori statunitensi.
Basta guardare le prime due memorabili sequenze del lungometraggio per capire quali siano le effettive intenzioni di Leone.
Nella prima, vediamo tre brutti ceffi venuti dal nulla che prendono possesso di una stazioncina ferroviaria nel deserto e attendono pazientemente l’arrivo di qualcuno.
Forse mai, nella storia del cinema, il concetto d’attesa è stato rappresentato con tanto iperrealismo.
Uno dei tre combatte, per una buona manciata di minuti, con una mosca che lo tormenta.
Alla fine riesce ad imprigionarla nella canna della sua Colt e si diverte a vederla agonizzare.
Dopo un tempo che pare un secolo, sopraggiunge un treno.
È un merci, che scarica alcune casse.
Quando il treno riparte dietro il polverone ecco apparire la sagoma di un uomo dalla faccia di pietra che suona il suo nome, Armonica, cui presta il volto Charles Bronson.
Ed ecco che i tre ceffi lo fronteggiano spavaldi per spedirlo al creatore.
La sparatoria è brevissima.
Tutti e quattro mangiano la polvere.
Ma Armonica è l’unico a rialzarsi.
Gli altri tre sono già fuori dal film, due di loro non hanno pronunciato una battuta.
Eppure si trattava di tre notevolissimi caratteristi di Hollywood: Woody Stroode, Jack Elam e Al Mulloch.
La seconda sequenza ci mostra Brett McBain, interpretato dall’attore è l’italiano Frank Wolff, maschera di grande intensità, morto suicida pochi anni dopo, un proprietario terriero irlandese da tempo vedovo che sprona i suoi tre figli ad accelerare i preparativi per una grandiosa festa all’aperto.
Cosa c’è da festeggiare?
L’arrivo di una donna Jill, sua futura moglie e nuovo angelo del focolare.
McBain non sta nella pelle.
I suoi rampolli sono più preoccupati che felici.
Ma a spegnere ogni ansia, ci pensano come al solito le pistole.
Pochi colpi, che sembrano venire dal cielo, e i McBain sono buoni solo per una tomba di famiglia.
Un pugno d’uomini incede lentamente sul luogo del massacro.
Il più piccolo dei McBain si affaccia sull’uscio.
Il capo dei killer lo fissa con un ghigno beffardo egli spara a sangue freddo.
Quell’uomo senza cuore si fa chiamare Frank, ma in realtà è nientemeno che il buono per antonomasia del cinema Americano: Henry Fonda.
Più dissacratori di così si muore.
Nella terza scena, ecco che sbarca nel film la novità più dirompente: la donna.
Una Claudia Cardinale bella da svenire interpreta l’ignara Jill, promessa sposa del già fu Brett McBain.
Ma ancora una volta, l’unico vero ignaro è il pubblico.
Perché di lì a poco scopriremo che è proprio la donna la vera protagonista di "C’era una volta il west".
È lei il centro d’attenzione e il motore del film, dal momento che le nozze col defunto sono state celebrate tempo addietro e che Jill può dirsi a tutti gli effetti, la signora McBain.
Questo piccolo particolare ha un’influenza determinante sul seguito della storia.
Il povero McBain, infatti, come tanti altri prima di lui, è stato assassinato su ordine di Morton, Gabriele Ferzetti in una caratterizzazione straordinaria, magnate infermo con il collare e le grucce che continua a vivere per portare a termine il progetto di unificare il Grande Paese con una ferrovia “coast to coast” che unisca l’Atlantico al Pacifico.
Quel progetto, sarà realizzato alla fine proprio da Jill McBain.
È la donna, infatti, il simbolo dell’America nascente che avanza sul cavallo d’acciaio e spazza via il ricordo del Far West per costruire l’immagine della futura prima potenza mondiale.
Rivedendo oggi questo film, tutto appare più fortemente simbolico.
Il rapporto tra Ferzetti/Morton, il mandante, e Fonda/Frank, il sicario, è forse, la cosa più bella del film.
Nell’intrigo che li vede complici e rivali, decisi a combattere ciascuno con le proprie armi, Morton il denaro, Frank la pistola, è racchiusa in forma di metafora fulminante tutta la storia americana.
Nella storia del cinema questo film che diventa sempre più leggendario con il passare del tempo, figura ormai come “l’ultimo dei western”.
Tuttavia, com’è puntualmente accaduto a Sergio Leone, anche "C’era una volta il west" ha segnato non la fine ma l’inizio di un filone cinematografico.
Molti film americani, dal "Pistolero" di Don Siegel, a "Gli Spietati" diretto e interpretato da Clint Eastwood, ci hanno raccontato del crepuscolo del Western, e chissà quanti ne verranno ancora.
Ebbene, quando li incontrerete non dimenticate che sono tutti figli di "C’era una volta il west" e del personalissimo talento creativo di Leone.