"La leggera" è un canto popolare che parla di un frangente molto diffuso agli inizi del XX secolo.
In un'epoca in cui il lavoro stagionale era la normalità, seguendo flussi antichissimi, dall'Italia settentrionale molti lavoratori si recavano in Maremma, terra oramai soggetta alla bonifica Medicea ma ancora intesa come malsana, pericolosa, "strana".
Chi andava a fare la stagione nei campi di quelle zone, contadini poverissimi, doveva prendere un treno che arrivava passando dall'Appenino tra la Toscana e l'Emilia, il famoso "Trenino della Leggera" o semplicemente "Leggera".
Si chiamava così perché i suoi viaggiatori non avevano niente o quasi.
Nella valigia o nella sporta che si portavano dietro, c'erano, nella maggior parte dei casi, un tozzo di pane, una mela e un paio di scarpe sfondate.
Racconta l'etnomusicologa e cantante italiana Caterina Bueno, che raccolse la canzone a Stia, in provincia di Arezzo, nei primi anni '60: “Il treno che portava i lavoratori stagionali attraverso tutta la regione fino in Maremma, veniva chiamato il “Trenino della leggera”, dove “leggera” era un termine dispregiativo e canzonatorio con cui si indicavano i disoccupati, gli stagionali o comunque gli emigranti che, poverissimi, viaggiavano “leggeri” con una sola sporta…”.
Il treno, dunque, era la "Leggera" perché il bagaglio di chi vi viaggiava era fatto di niente.
Ma in quel treno, come in tutti i treni dei lavoratori, si cantava.
Cantare non aveva soltanto una funzione di svago e di passatempo, probabilmente era anche un sistema per cercare di farsi passare la fame, ma era, per molti, un mezzo per pagarsi il soldo che costava il biglietto.
In un'epoca in cui il lavoro stagionale era la normalità, seguendo flussi antichissimi, dall'Italia settentrionale molti lavoratori si recavano in Maremma, terra oramai soggetta alla bonifica Medicea ma ancora intesa come malsana, pericolosa, "strana".
Chi andava a fare la stagione nei campi di quelle zone, contadini poverissimi, doveva prendere un treno che arrivava passando dall'Appenino tra la Toscana e l'Emilia, il famoso "Trenino della Leggera" o semplicemente "Leggera".
Si chiamava così perché i suoi viaggiatori non avevano niente o quasi.
Nella valigia o nella sporta che si portavano dietro, c'erano, nella maggior parte dei casi, un tozzo di pane, una mela e un paio di scarpe sfondate.
Racconta l'etnomusicologa e cantante italiana Caterina Bueno, che raccolse la canzone a Stia, in provincia di Arezzo, nei primi anni '60: “Il treno che portava i lavoratori stagionali attraverso tutta la regione fino in Maremma, veniva chiamato il “Trenino della leggera”, dove “leggera” era un termine dispregiativo e canzonatorio con cui si indicavano i disoccupati, gli stagionali o comunque gli emigranti che, poverissimi, viaggiavano “leggeri” con una sola sporta…”.
Il treno, dunque, era la "Leggera" perché il bagaglio di chi vi viaggiava era fatto di niente.
Ma in quel treno, come in tutti i treni dei lavoratori, si cantava.
Cantare non aveva soltanto una funzione di svago e di passatempo, probabilmente era anche un sistema per cercare di farsi passare la fame, ma era, per molti, un mezzo per pagarsi il soldo che costava il biglietto.
Nelle stazioni, delle specie di bande di stagionali s'improvvisavano canterini e si esibivano chiedendo qualcosa.
Cantavano, spesso, canzoni inventate da loro stessi e il ritmo cadenzato della locomotiva sui binari scandiva e cullava le ballate satiriche, anti-clericali e libertarie che preannunziavano la rivolta sociale e il presagio della prossima migrazione di massa verso la lontana America.
Erano canzoni particolari, sovente rognose, e ancor più spesso piene di sogni d'una vita migliore.
E l'illusione di una vita migliore si avverte anche in questa canzone e consiste nel non dover lavorare come schiavi.
Quando i lavoratori cantano di lavoro, liberi di farlo nelle forme che preferiscono, il lavoro non fa una bella fine.
In canzoni come questa, il concetto di lavoro è ancora espresso nella sua forma bruta.
E il sogno di ogni bracciante è una settimana dove non si fa niente e si viene pagati.
Canzoni come questa sono piene di sarcasmo, perché chi le inventava e le cantava sapeva bene che cosa, invece, andava a fare.
Settimane, mesi a spaccarsi la schiena per una miseria.
Cantavano, spesso, canzoni inventate da loro stessi e il ritmo cadenzato della locomotiva sui binari scandiva e cullava le ballate satiriche, anti-clericali e libertarie che preannunziavano la rivolta sociale e il presagio della prossima migrazione di massa verso la lontana America.
Erano canzoni particolari, sovente rognose, e ancor più spesso piene di sogni d'una vita migliore.
E l'illusione di una vita migliore si avverte anche in questa canzone e consiste nel non dover lavorare come schiavi.
Quando i lavoratori cantano di lavoro, liberi di farlo nelle forme che preferiscono, il lavoro non fa una bella fine.
In canzoni come questa, il concetto di lavoro è ancora espresso nella sua forma bruta.
E il sogno di ogni bracciante è una settimana dove non si fa niente e si viene pagati.
Canzoni come questa sono piene di sarcasmo, perché chi le inventava e le cantava sapeva bene che cosa, invece, andava a fare.
Settimane, mesi a spaccarsi la schiena per una miseria.
Tra i moltissimi interpreti di questo brano i principali sono:
Suonatori Terra Terra
Caterina Bueno
Ginevra Di Marco