sabato 5 marzo 2011

Meglio soli che malati di solitudine

Visto che la solitudine si sta rivelando uno dei mali maggiori della società moderna e che è una situazione che ho provato in prima persona, voglio condividere con i miei cinque lettori questo articolo di Vittorio Zucconi, apparso a pagina 20 di Repubblica Donna di sabato 16 gennaio 2009, che spiega molto bene la genesi e la trasmissione di una delle malatie psicologiche più comuni degli anni 2000.

  
Il picco della malattia si registra alla fine dell'anno, nel vortice delle grandi feste, degli auguri, delle riunioni di famiglie e di amici, dei bacetti sotto il vischio e della felicità con le palline di plastica argentata in confezione regalo.
Si diffonde come tutte le epidemie, quelle che adesso dobbiamo chiamare pandemie perché fanno più effetto nei titoli dei telegiornali, e sono il modello nuovo della collezione grandi paure autunno-inverno 2009/10.
Il meccanismo di trasmissione è classico: si incontra una persona che ne è affetta, si interagisce con lui o con lei da vicino, anche senza contatto fisico ravvicinato, specialmente con lei perché le donne sono le più colpite, e dopo qualche ora, giorno, a volte settimane, perché l'incubazione può essere lunga, possono manifestarsi i sintomi.
Perdita di appetito, insonnia, sbalzi di umore, cefalee, autoisolamento, insomma una quarantena interiore.
La malattia si chiama solitudine.
E anche se può sembrare un paradosso, nuove ricerche condotte da istituti universitari americani, pubblicate sulla stampa specializzata, sostengono di avere scoperto che la solitudine è contagiosa.
Poiché essa è una condizione psicologica (quando non è la solitudine fisica e forzata di chi viene crudelmente abbandonato), la si può trasmettere agli altri, anche avendo un'apparente vita sociale. Sappiamo tutti benissimo che ci si può sentire soli anche nel mezzo di una folla, anche in una casa traboccante di amici e parenti, in un club o in una tragica festa dove gli altri sembrano divertirsi come pazzi.
Tutti meno tu.
Non è il numero di persone che conosciamo o che fisicamente ci circondano, anche in un ufficio o in uno stabilimento, a determinare il senso di solitudine.
Anzi, proprio per questo, chi ne soffre a volte subisce un acutizzarsi dei sintomi nei periodi delle feste comandante, quando tutti gli altri sembrano riunirsi, divertirsi in compagnia.
Mentre io resto solo.
Con i finanziamenti del governo americano, che ha evidentemente soldi che gli cascano dalle tasche per pagare ricerche come questa, quattromila e ottocento solitari e solitarie sono stati seguiti per dieci anni: a Chicago, Los Angeles, Miami, dunque in ambienti, climi e culture urbane diversissime.
Si è visto, o si è creduto di vedere, perché notoriamente le ricerche tendono a dimostrare le premesse dalle quali partono, per giustificare il finanziamento incassato, che il feeling della solitudine si diffondeva tra coloro che entravano in contatto con chi già lo subiva.
«Nessun essere umano è un'isola», dice per esempio il professor Nicholas Christakis, che insegna sociologica medica (non chiedetemi che cosa sia) a Harvard.
«Così anche un'emozione personale, privata come il senso di solitudine, può avere un'esistenza collettiva e influenzare altre persone».
Senza arrivare alla patologia della depressione clinica, della quale la solitudine cronica e comunque cugina, e può esserne la porta, anche il sentirsi soli ha naturalmente effetti fisici, in particolare sulle femmine della nostra specie che più dei maschi tendono a vedere il mondo come una ragnatela di relazioni interpersonali, e a contagiare più facilmente altre femmine con le quali entrano in contatto, se ne soffrono.
Nella favolistica popolare e nella mitologia abbondano gli orsi o i lupi solitari, ma scarseggiano le lupe solitarie, a parte quella famosa che comunque dovette adottare e allattare due pesti di gemelli italiani per non sentirsi troppo sola e per offrire al Comune di Roma qualcosa da mettere sul proprio stemma.
C'è chi nega e contesta le conclusioni di questo lavoro pubblicato dalla rivista americana di psicologia, perché non esiste ricerca al mondo che non abbia detrattori e scettici: ma l'idea che il proprio comportamento, i propri umori e le proprie emozioni possano contagiare altri essere umani, in negativo o in positivo, è scritta da sempre nella cultura popolare, anche senza attendere i fondi pubblici per la ricerca e le sussiegose università.
«Ridi e il mondo riderà con te», avverte un proverbio.
«Piangi e piangerai da solo».
Ora andrà modificato in «piangi e farai piangere anche gli altri», dunque non fare l'orso perché potresti deprimere tutto il branco.
Anche se, per essere onesti, di orsi piangenti non se ne sono mai visti molti.

2 commenti: