domenica 15 dicembre 2013

Crimini e misfatti


L'universo è indifferente non solo verso il malvagio, ma non si cura nemmeno della felicità del buono.
Siamo esseri assolutamente soli.
Questo sembra volerci suggerire Woody Allen nel film “Crimini e misfatti” commedia agrodolce, da lui scritta e diretta nel 1989 e ritenuta dalla critica uno dei film più complessi e pregnanti della sua carriera, che affronta temi complicati quali l'omicidio, la pena e il senso di colpa.
Ambientato nella cornice dell'alta borghesia ebraica di una New York in cui si sfiorano due storie che hanno per protagonisti Judah Rosenthal, noto medico oculista, interpretato da un immenso Martin Landau, perseguitato dall'amante al punto che deciderà di assoldare un killer per ucciderla e Cliff Stern, documentarista impersonato da un Woody Allen mai così alienato come in questo film, senza successo in amore, questo lungometraggio fonde alla perfezione i generi del dramma e della commedia.
Ad affiancare i due protagonisti, un cast brillante e professionale, composto da molte personalità eccellenti del mondo di Hollywood tra cui spicca la deliziosa Mia Farrow, l'arrogante Alan Alda, Angelica Huston, che compare in un breve cameo nel ruolo della hostess Dolores Paley e Sam Waterston nel ruolo del rabbino Ben, allegoria della cecità umana oltre che di una religione che non risolve i dubbi dell'individuo sulla vita e dell'assenza di un Dio che se c'è è indifferente alla sorte die propri figli.
Il tratto comune delle due vicende narrate è che i protagonisti, che nel finale del film si conoscono e si ritrovano a conversare tracciando un bilancio della loro esistenza e raccontandosi in terza persona, si trovano, seppure in maniera diversa, di fronte a scelte morali che faranno vacillare le loro credenze e suggeriranno domande del tipo: “Che cosa sono la morale e il dubbio?”, “Dio esiste?”
Allen non dà risposte a questi quesiti e, proprio perché ritiene che il cinema sia diverso dalla realtà della vita quotidiana, delega al pubblico la possibilità di qualsivoglia giudizio etico.
Però la morale del film non è del tutto negativa.
Il messaggio che l'autore sembra volerci trasmettere è che, nonostante la solitudine che ci opprime, bisogna aggrapparci alle nostre passioni e ai nostri affetti e con la nostra capacità di amare dare “significato all'universo indifferente”, augurandosi che le generazioni future, incarnate nella vicenda dalla nipotina di Cliff, possano capirlo.
Al di là dei numerosi risvolti filosofici sono presenti in quest'opera tutti gli stilemi propri della filmografia del regista e attore newyorchese.
La pellicola infatti è pervasa da una vena umoristica che vira quasi subito verso l'amarezza ed è ambientata in una New York dai toni decadenti, meravigliosamente fotografata da Sven Nykvist, collaboratore abituale di Ingmar Bergman.
E proprio al regista svedese, da sempre suo modello, Allen riserva una raffinata citazione quando Judah, come accadeva al protagonista de “Il posto delle fragole”, rievoca una scena del passato nella sua casa d’infanzia.
A testimonianza della validità di questo prodotto, indicato per chi cerca nel cinema qualcosa di più di un diversivo per trascorrere un paio d'ore, dobbiamo ricordare inoltre che il film è stato candidato a tre premi Oscar nel 1990, al Golden Globe per il miglior film drammatico e ha vinto sette premi internazionali, tra cui il David di Donatello per la migliore sceneggiatura straniera.

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